Il diritto penale del nemico?

Nonostante oggi la nozione di diritto penale del nemico abbia assunto una sua cittadinanza giuridica, grazie all’elaborazione della stessa da parte del filosofo tedesco Gunther Jakobs, possiamo veramente condividerla? Non dovremmo invece ritenerla una contraddizione in termini, rappresentante di fatto la negazione del diritto penale? È questo il fine dell’articolo di Luigi Ferrajoli “Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale”, qui di seguito commentato.

 

All’indomani dei drammatici fatti di Parigi, le parole spese sono state numerose. La mente di un giuspenalista non può che ritornare alle soluzioni che, a seguito dell’attentato dell’11 settembre, sono state adottate dagli Stati Uniti quali strumenti di lotta al terrorismo. Tali misure, come vedremo, sono state classificate da molti come nuova branca del diritto penale: il diritto penale del nemico. Può tale scelta essere condivisa? Può l’utilizzo di tali pratiche essere una valida soluzione anche nel contesto attuale?

Nell’incipit del suo testo Luigi Ferrajoli, autorevole giurista e allievo di Norberto Bobbio, afferma come questo si articolerà in una vera e propria critica del diritto penale del nemico, non tanto e non solo per la spiegazione che di tale concetto è stata data, ma soprattutto per il fatto che dello stesso si parli, che su questo si sia sviluppata una copiosa letteratura e che gli venga pertanto riconosciuta una parvenza di legittimità.

Secondo lui parlare di diritto penale del nemico significa “parlare di un ossimoro, di una contraddizione in termini, che rappresenta di fatto la negazione del diritto penale: la dissoluzione del suo ruolo e della sua intima essenza dato che la figura del nemico appartiene alla guerra che del diritto è la negazione, così come il diritto è la negazione della guerra”.

Dopo aver analizzato che cosa si intende per diritto penale del nemico, si vedrà come l’autore tratta l’argomento, introducendo una distinzione tra il suo significato descrittivo e quello normativo, prima di analizzarne la sua efficacia quale strumento di lotta al terrorismo.

Una nozione discussa in dottrina

La fortuna della formula si deve a Günter Jakobs il quale ha proposto la contrapposizione tra Feindstrafrecht e Bürgerstrafrecht secondo quello potremmo definire un vero e proprio codice binario. Nel farlo ha richiamato passi fondamentali di una tradizione filosofica moderna, da Hobbes a Rousseau, da Kant a Fitche, il quale ha riconosciuto la legittimità dell’intervento del diritto penale di fronte ai nemici della cosa pubblica. Ed infatti, come sottolinea Donini, il nemico deve qui essere inteso come hostis, cioè nemico delle istituzioni e dello stato stesso e non invece come inimicus, vale a dire mero avversario privato.

La logica interventista, sostiene Zumpani, si ricollega per Jakobs a una volontà di prevenzione che comprende una concezione del nemico come colui che rifiuta volontariamente lo status di cittadino (Bürger), per autoconvertirsi in nemico (Feind) del sistema. “Perciò, solo lo Stato si autolegittimerebbe, ad avviso di Jakobs, ad offrire al resto dei cittadini una protezione rafforzata da coloro che abbiano violato le aspettative normative su di loro riposte, ammettendosi l’applicazione di misure di sicurezza (molte delle quali in forma apparente di pene) in uno stadio di molto precedente alla realizzazione della condotta tipica”.

Trattando tale tema, sostiene Donini, le strade da scegliere possono essere due. La prima, accettandolo come branca del diritto, si deve necessariamente limitare a circoscriverlo ad alcuni aspetti del diritto contemporaneo. La seconda, ed è questa la strada intrapresa dal nostro autore, escludendo a priori che il diritto penale del nemico possa far parte del diritto penale, rischia di riferirsi più a ciò che quest’ultimo dovrebbe essere, che a quello che effettivamente è.

L’autore volendo interrogarsi sulla legittimità giuridica di tale formula, ne individua i due significati principali. Se da un lato ammette che la stessa possa avere un significato descrittivo, nonostante anche in questo caso non si possa parlare di una vera e propria declinazione del diritto penale, perché si tratta in realtà di una sua perversione, dall’altro lato esclude che possa avere anche un significato normativo. Il solo fatto che tali pratiche repressive e punitive vengano messe in atto sotto il nome di diritto penale non significa che ne possano oggi costituire una nuova categoria. Tuttavia il rischio è quello di avere una contaminazione dei due piani, come sostiene Pulitanò, dal momento che discernere il prescrittivo dal descrittivo nel campo giuridico è “un’impresa di colossale complessità”.

La nascita di tale diritto si ricollega in realtà alla legittimazione politica di tali pratiche punitive, sostiene Ferrajoli, “chiamate abusi e non torture per non ammettere ufficialmente il crimine”. Alla base di tale tesi vi è tuttavia una confusione di fondo: la guerra viene vista come uno strumento di mantenimento dell’ordine pubblico internazionale e il diritto penale del nemico come manifestazione vera e propria della guerra.

Il significato descrittivo

Nell’analizzare il significato descrittivo della formula l’autore fa soprattutto riferimento alle pratiche che si sono diffuse, a partire dagli Stati Uniti e dal cosiddetto “impero della paura”, a seguito l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre, al fine di individuare e punire i colpevoli. La legislazione antiterroristica è infatti una delle principali manifestazioni del diritto penale del nemico, rilevando la tendenza a sanzionare anche meri atti preparatori e atteggiamenti interiori. Il “lutto collettivo” derivante dai vari attentati terroristici ha infatti “determinato un’involuzione illiberale del sistema penale che, attraverso l’enfatizzazione mediatica della percezione del rischio e la catalizzazione di latenti tendenze autoritario-repressive, è divenuto sempre più intollerante anche verso remote manifestazioni di pericolosità soggettiva e verso il mero dissenso ideologico” sostiene Caterini. Catalogando il terrorismo come un’irrazionale pulsione omicida, si arriva a identificare il terrorista come un non-uomo escluso pertanto dall’ambito di applicazione del diritto penale e delle garanzie che ne seguono.                                               

Successivamente l’autore si interroga sulla base teorica di tali fenomeni.

Inevitabilmente aleggia qua l’ombra di Carl Schmitt, il quale, definendo la politica nei termini dell’opposizione amico/nemico, avrebbe compiuto un errore, assecondando questa la dissoluzione dello stato di diritto. Tale opposizione deve infatti essere ritenuta propria non della politica, sostiene Ferrajoli, ma della guerra, che “di ogni politica razionale è la negazione”. Punto di partenza del pensiero schmittiano è il dettato hobbesiano “auctoritas, non veritas facit legem”. Tuttavia traducendo tale massima nel senso che solo il sovrano, indipendentemente da qualsiasi limite, ha potere di emanare le leggi e di determinarne le eccezioni (dunque anche di definire cosa si intenda per nemico) Schmitt contraddice, secondo quanto sostenuto da Donini, il fondamento stesso del diritto costituzionale come oggi noi lo intendiamo. Come ricordato da Kelsen, così come la politica ha un fondamento e dei limiti costituzionali, allo stesso modo anche la nozione di nemico non è extra-giuridica, ma sottomessa agli stessi limiti.

La contraddizione consiste, come afferma Zumpani, nel fatto che legittimando situazioni quali quelle di Guantanamo o di Abu Ghraib, si presenta il diritto penale del nemico, strumento che viola costantemente i diritti umani, come rimedio fondamentale per la violazione dei diritti umani stessi.

Il significato normativo

Perché parlare di diritto penale del nemico implica negare il diritto penale stesso? La risposta a tale domanda deve essere ricercata per l’autore nella tradizione contrattualista e soprattutto nell’opera hobbesiana. Il diritto, nella forma del contratto sociale, rappresenta il mezzo tramite il quale si passa da uno stato di bellum omnium contra omnes a uno stato civile, il quale nega la vendetta e di conseguenza la guerra.

“Nella società civile non esistono più nemici ma consociati, non più guerre ma pene e delitti”.

Se si abbraccia la tesi di Hobbes non si può riconoscere valore giuridico al diritto penale del nemico che contraddice l’idea stessa di diritto penale tanto sul piano del trattamento sanzionatorio, quanto su quello dell’accertamento processuale e della stessa struttura della fattispecie incriminatrice, sovente costruita in chiave soggettivamente pregnante.

Riconoscendosi la punibilità non di un fatto astratto, ma di un soggetto ben specifico, il nemico, si nega lo stesso principio di legalità, uno dei capisaldi del diritto penale. Secondo l’archetipo del diritto penale d’autore, il nemico viene dunque punito per ciò che è e non invece per ciò che fa.

Il presupposto della pena non è la commissione di un reato, ma una qualità personale determinata di volta in volta con criteri potestativi e soggettivi quali quello di sospetto o di pericoloso. La decisione non si fonda su prove, ma su “prognosi e diagnosi politiche”. Da tale soggettivizzazione dell’illecito deriverebbe, secondo quanto affermato da Resta, una vera e propria crisi del postulato “cogitationis poenam nemo patitur”.

Tuttavia secondo lei il riconoscimento del Feindstrafrecht non implicherebbe un rifiuto della società civile hobbesiana, anzi. Il legislatore, legittimato dal contratto sociale, deve necessariamente garantire la sicurezza della popolazione civile in virtù del mito durkhemiano di una coscienza sociale che appartiene a tutti i membri di una società, in particolare nel momento della violazione delle norme. Il teleologismo della pena si identifica dunque necessariamente nell’eliminazione dell’allarme sociale.

Il problema si pone a partire dal momento in cui a tale deformazione del diritto penale in via astratta segue nella pratica una deformazione che investe la natura del giudizio penale, facendo venir meno tutti quei valori di natura illuministico-generale che lo caratterizzano. Infatti “tale cambiamento in senso sostanziale e soggettivo del modello di legalità penale all’insegna del nemico ha per effetto il crollo di tutte le garanzie processuali”. Se delinquente ed imputato sono nemici il giudice a sua volta diventa nemico del reo perdendo inevitabilmente ogni carattere di imparzialità. Cambia dunque tanto la natura del giudizio, stravolgendo la natura accusatoria dello stesso e trasformandolo in una vera e propria lotta, tanto l’oggetto processuale.

Losappio parla di una certa inquietudine alimentata dai riferimenti, da parte dei sostenitori del diritto penale del nemico, alla tortura. Tra questi Beck il quale conclude una sua relazione indicando esplicitamente, seppure dubitativamente, quale soluzione al terrorismo appunto la tortura: “Folter?”. Ciò che stupisce è dunque che “la più raffinata dottrina abbellisca le pulsioni anti garantistiche, figlie di una concezione fondamentalista e quindi perversa della democrazia”, col solo intento di giustificare il mezzo specifico per il raggiungimento di uno scopo: sconfiggere il terrorismo.

Ferrajoli tuttavia si chiede se la tortura sia effettivamente il mezzo più efficace per la lotta al terrorismo e la preservazione della società “giusta”.

Efficacia reale o presunta?

Ci si deve dunque chiedere se il diritto penale del nemico sia oggi o meno efficace nella lotta al terrorismo. Inoltre, sostiene Zumpani, ci si deve interrogare sulle conseguenze di una mancata accettazione di politiche giuridiche democratiche in situazioni statali di emergenza. La legittimazione di una nozione quale quella di Feindstrafrecht comporta non solo la normalizzazione dello stato di emergenza, ma soprattutto la normalizzazione dei mezzi per porvi rimedio. Ciò che cerca di dimostrare Ferrajoli è che così facendo il diritto penale perde non solo la sua legittimità, ma anche la sua efficacia. Per scongiurare tale pericolo infatti la distinzione socratica tra diritto e guerra dovrebbe sempre rimanere tale.

L’importanza del definire l’attentato dell’11 settembre come guerra o atto terroristico sta nella risposta che la nostra civiltà giuridica appresta ai due fenomeni. “Ad un atto di guerra si risponde con una guerra di difesa; ad un crimine, per quanto grave possa essere, con il diritto penale.” È chiaro che tale attentato non sia un atto di guerra, ma di terrorismo, alla luce delle sue finalità e dei soggetti coinvolti. Si è trattato di un atto volto a seminare terrore tra innocenti ad opera di un’organizzazione e non invece di uno stato. Tuttavia la risposta apprestata è stata quella tipica della guerra.  Alla luce di ciò ci si deve domandare se la guerra, presentata quale segno di forza da parte degli stati, non sia invece segno di debolezza.

Infatti il terrorismo internazionale, consistendo in una rete di organizzazioni clandestine può essere affrontato e battuto solo da una rete di forze di polizia. Ciò, sostiene l’autore, non solo sarebbe stato facilmente realizzabile, avendo quale condizione fondamentale la cooperazione tra l’Occidente e gli Stati Uniti, ma avrebbe anche accresciuto la credibilità di questi ultimi. “La guerra soddisfa senza dubbio la sete di vendetta, ma lo fa a danno di altre vittime innocenti, aggravando così i problemi che si prefigge di risolvere.” Si potrebbe pensare che sia proprio questo e dunque la sconfitta della ragione e del diritto l’obiettivo strategico al quale mira il terrorismo. Per questo la risposta al terrorismo è tanto più efficace quanto asimmetrica. Solo riconoscendo al terrorismo la natura di crimine e rispondendo ad esso in quanto tale, lo si può sconfiggere. “Terrorismo e guerra infatti si alimentano l’un l’altro e solo l’intervento del diritto può interrompere questa spirale”.

Il pericolo è che si arrivi ad una guerra infinita.

Conclusioni

Gran parte dell’opinione pubblica dei paesi ricchi vive oggi la globalizzazione come una minaccia alla propria sicurezza. Ciò porta allo sviluppo di movimenti xenofobi e razzisti e ad una guerra contro il diverso. Tuttavia la guerra odierna si trasforma sempre di più in uno sterminio di massa a danno di popolazioni inermi. Si potrebbe pensare tuttavia che i continui richiami ai valori religiosi occidentali e alla lotta del Bene contro il Male servano solo a mascherare i veri interessi in gioco: interessi economici e politici che non tollerano alcun limite né controllo.

Di fronte a tali processi dunque, ancora di più si manifesta la necessità di ristabilire l’iniziale asimmetria tra diritto e crimine, tra imputati e nemici. “La ragione giuridica che sta alla base dello stato di diritto non deve e non può conoscere nemici e amici, ma solo colpevoli e innocenti” sostiene Ferrajoli. A tale conclusione giunge anche Zumpani il quale afferma: “L’unico modello perseguibile è quello di una democrazia culturale giuridica basata sulla dogmatica penale “illuministica”, che accolga la concezione di soggetti innocenti e soggetti colpevoli, lontana da una Costituzione globale di diritti umani flessibili e funzionale ad una ragion di stato superiore e assoluta.” 

Contrapporre al terrorismo la ragione e il diritto è essenziale non solo per la salvaguardia dei principi del giusto processo, ma anche per il futuro della democrazia.

 

 

Bibliografia

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